Il rinascimento del vino bianco italiano

Spesso le cose accadono quando in un uomo si genera un’idea in un momento storico propizio.

L’uomo, figlio di osti e oste lui stesso, si chiama Mario Schiopetto. Il momento è quello del grande boom economico italiano, sono gli anni ‘60. L’idea, semplice ma per gli anni ambiziosa, è quella di un vino bianco non ossidato che conservi in bottiglia i profumi dell’uva.

Bisogna ricordare che all’epoca il vino bianco italiano era quasi universalmente ossidato. Prodotto da noi per alzata di cappello, le bucce iniziavano a fermentare insieme al mosto rilasciando sostanze ossidative che distruggevano gli aromi dell’uva. Mario si guarda intorno, sa dei grandi riesling tedeschi, viaggia molto e diviene amico di Müller-Späth, un enologo prestato alla Seitz, industria leader nella produzione di tecnologia enologica. Il Collio parla di nuovo tedesco.

Mario rivoluziona il modo di produrre il vino e di venderlo. Introduce la vinificazione in bianco realizzata separando il mosto dalle bucce con una pressatura soffice prima dell’inizio della fermentazione. Introduce la tecnologia del freddo per preservare gli aromi dell’uva durante la fermentazione. Va a vendere il suo vino nei grandi centri del triangolo industriale italiano, Milano, Genova, Torino, intuendo che il vino diviene grande solo se trova i suoi compratori lontano.

Quasi contemporaneamente un rampollo di un’antica famiglia goriziana, il Conte Sigismondo Douglas Attems di Petzestein  dopo aver perso con l’ultima guerra la gran parte delle terre rimaste in Jugoslavia capisce che bisogna cambiare e raduna intorno a sé un gruppo eterogeneo di conti e contadini per fondare nel 1964 il Consorzio di Tutela Vini del Collio, intuendo con grande lungimiranza che un prodotto vincente destinato a viaggiare deve portare un nome che lo faccia riconoscere come unico. Ecco un altro personaggio che se parla un italiano corretto, pensa certamente in tedesco. Il Conte assume un entusiasta e giovane siciliano diplomato a Conegliano, Gaspare Buscemi. L’enologia, per la prima volta nella storia, entra nelle buie e anguste cantine di terra battuta e dentro gli strettini dei soci del Consorzio Collio. Le idee rivoluzionarie si diffondono.

Ogni rivoluzione ha i suoi cantori. Il Collio li trova in alcuni intellettuali che gli fanno da sponda nel mondo della carta stampata. Ne cito due per tutti: Mario Soldati e Luigi Veronelli. Fa capolino nella cultura italiana un’idea nuova: il vino può essere anche buono. Fino ad allora, gli scrittori italiani, con l’eccezione di Tomasi di Lampedusa (che tuttavia al suo Principe fa bere rigorosamente Champagne), il vino è principalmente una sostanza ad azione psicotropa. E’ la droga dei poveri, come per il Renzo Tramaglino de I Promessi Sposi, che dopo il terzo bicchiere scorda ciò che gli accade insieme ai suoi affanni. Il vino buono diviene così vessillo di un nuovo manifesto della vita materiale. In loco, il giornalista Isi Benini fonda Il Vino, importante rivista a tiratura nazionale edita a Udine. La rivoluzione si fa sistema e il Collio si fa “Il grande bianco d’Italia”.

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